e se perdi, sai ricominciare senza dire una parola di sconfitta
Raccontarsi significa guardare la verità, darle un nome, anche se fa paura.
Daniela Morozzi, accompagnata da Alda Dalle Lucche al sax, Susanna Bertuccioli all’arpa, e dall’Arcobaleno Ensemble, piccola orchestra di bambine di tutte le età diretta da Giada Moretti, legge Non volevo vedere, dall’omonimo libro di Fernanda Flamigni e Tiziano Storai.
Una testimonianza autentica del distorsivo rapporto tra un uomo e una donna che, con agghiacciante frequenza, sfocia nel dramma del femminicidio.
Si racconta ciò che Fernanda ha vissuto ed il messaggio che ha voluto dare: un inno alla speranza per vincere la battaglia per la vita e la dignità, per credere nell’uguaglianza e nella libertà.
Una produzione Scuola di Musica di Fiesole, con il contributo di Città Metropolitana di Firenze.
Trama
I protagonisti di Non volevo vedere sono una coppia di giovani che si sono conosciuti nei corridoi dell’università occupata nel 1989. Si innamorano, si fidanzano, poi si sposano. Una storia come tante. Il sogno di lei di una famiglia serena e felice, “da Mulino Bianco”, si sgretola sotto le picconate dell’uomo che svela fin dai primi tempi un carattere ambiguo, dai tratti psicotici, scisso tra scatti d’ira e microscopici gesti, come una rosa dopo una sberla. Fernanda resiste, stringe i denti, va avanti, con amore, poi con il senso del dovere ereditato dal padre. E mente a se stessa mentre il marito perde uno dopo l’altro gli impieghi come giornalista e si barrica dietro accuse al mondo, scuse e pretesti. Il tutto mentre lei non può fare nulla per contrastare la crescente dipendenza dell’uomo dalle droghe.
Dal giorno in cui l’eroina diventa la terza incomoda, un’amante esigente, i soldi cominciano a sparire dal conto in banca e dal salvadanaio del bambino. La protagonista decide di doversi salvare insieme al figlio. Torna alla casa di famiglia, parte il ricorso per la separazione, mentre nelle settimane successive subisce minacce, percosse, appostamenti e una terrificante aggressione a mano armata sul luogo di lavoro. Nel delirio che deve affrontare per proteggersi, Fernanda è più preoccupata delle minacce di suicidio dell’uomo, ne parla alle forze dell’ordine, ai servizi sociali. Poi un giorno la telefonata, e la protagonista aprirà per l’ultima volta la porta al suo carnefice che dice di portare un tardivo regalo di Santa Lucia al bambino. Entrato in casa, dalle sue mani uscirà una fisarmonica per il figlio, e tanti coriandoli di carta lanciati sulla testa della moglie che ha ventinove anni: è il ricorso per la separazione stracciato in tanti piccoli pezzi. Poi la mano estraeva la pistola. Il resto è la cronaca raccontata d’un fiato, trascinati da un ritmo da thriller psicologico e l’atroce consapevolezza che non si tratta di finzione, ma di una storia vera di chi ha sentito la propria pelle rabbrividire e tremare per davvero di fronte alla fine.
Non volevo vedere, il titolo, una pugnalata: dopo due mesi di ricovero l’autrice è emersa dal proprio letto d’ospedale completamente e per sempre cieca. Nella stanza buia in cui è costretta, Fernanda Flamigni ha deciso di ricominciare, di ripartire e per farlo è necessario capire, vedere, aprire gli occhi. Si va a tentoni, si urtano mobili, ci si riempie le gambe di lividi. Ma dopo diciassette anni si può raccontare la propria storia, rivederla da capo, sviscerarla, osservarla tutta per poi descriverla in ogni suo anfratto, anche il più doloroso.